Nella concezione comune, il “senso di responsabilità” è quasi sempre sinonimo di lavoro fatto bene, nei tempi e con efficienza. E oggi lo è forse ancora di più, a causa della complessità e dell’incertezza che mette a dura prova strutture, processi e regole. Da qui il bisogno crescente delle aziende di responsabilizzare le risorse umane. Ma quale può essere, proprio in questo contesto di continue rotture e trasformazioni, la chiave di questa responsabilizzazione?

Responsabilità: una parola che fa paura?

Ho fatto un test di libere associazioni ad amici e parenti, per sondare i concetti e le immagini evocate dalla parola “responsabilità”.
Il risultato: di primo acchito, un buon 90% associa il termine a idee e sensazioni di peso, vincolo, costrizioni, giudizio e biasimo, rischio di conseguenze per lo più negative.

Non a caso, questo sentimento è usato come leva dagli studiosi di behavioral sciences (e molto prima dai nostri genitori, insegnanti, capi …) per contrastare alcuni automatismi e distorsioni della nostra mente e “pungolarci” più o meno gentilmente a pensare meglio, gestire più efficacemente la nostra attenzione, decidere in modo più ponderato e lungimirante, pianificare e agire con più realismo, proattività, cura, autocontrollo.

Un po’ di storia…

Richard H. Thaler e Cass R. Sunstein (autori del libro Nudge. La spinta gentile) hanno coniato l’espressione “paternalismo libertario” (comparso per la prima volta nel 2003), che suona quasi come un ossimoro ma suggerisce la possibilità e legittimità per le istituzioni di “architettare” i processi decisionali così da influenzare i nostri comportamenti nel rispetto della libertà di scelta.

Ed eccola qua l’altra immagine, che a pochi dei miei amici è venuta in mente. Anche se, nella riflessione sui “caratteri specifici dell’agire umano”, i concetti di libertà, consapevolezza e responsabilità sono connessi indissolubilmente, dai tempi di Omero.

Un po’ di contemporaneità…

E allora una prima domanda è: come mai? che fine ha fatto nella nostra coscienza la percezione di libertà, di “potere”? che pure tanto spazio occupa nei saggi di storici, giuristi, teologi, studiosi di scienze umane in generale.
Nel quotidiano, queste sottigliezze le bypassiamo: siamo invece più pragmaticamente chiamati in causa e marcati stretti da familiari, conoscenti, amici, capo e colleghi, amministrazione pubblica e privata, consuetudini, strutture, regole…
E in particolare in questi tempi di ambiguità e incertezza, in cui le contraddizioni spiccano e ci pare a volte di aggirarci come “di nebbia in nebbia”, alla pretesa di dare risposte e assumerci le conseguenze, istintivamente sospiriamo (come Neruda) “Non mi chiedete…”.
Il nostro istinto di protezione ci suggerisce di starne fuori, prendere tempo, mimetizzarci. Un istinto utile, che diventa disfunzionale quando non cerca e non trova che minacce, rischi, ostacoli, risorse che mancano. Quando (irrealisticamente ma di fatto) l’errore è demonizzato, e quindi anche la sperimentazione, l’adattamento, la scoperta.
A questo si aggiunge un calo di energie da sovraccarico e vuoto di senso, con annessa percezione di vulnerabilità, narcolessia, impotenza e… un filo di nausea.

Che cosa manca nel dibattito?

Per differenza si stagliano, nei risultati del test, altri 2 grandi assenti: che fine hanno fatto il desiderio e il piacere?
Anni fa, un amico mi fece notare la differenza fra “Non faccio la tal cosa perché ho famiglia” (= vincolo, peso, “pannello di controllo” fuori dalla mia portata) e “Scelgo di non fare tal cosa perché ho scelto di avere famiglia” (= piacere, desiderio, “potere”).
Da Omero in poi, il desiderio e il piacere alimentano e sostanziano la specificità “dell’agire umano” infinitamente…
La terza e ultima domanda, dunque: tutto questo cos’ha a che fare con le pratiche e il vissuto della “responsabilità” nelle organizzazioni?

Responsabilizzare le Risorse Umane: la proposta del self-empowerment

La proposta del self-empowerment è che le aziende, per responsabilizzare persone e team, si aprano alla possibilità non soltanto di vincolare a doveri ma anche di coltivare desideri, piacere di implicarsi, protagonismo, allenando manager e collaboratori a:

Aprirsi e aggiungere nuove possibilità di “stare al mondo”, e quindi anche di libertà (e responsabilità) di scelta.
Cercare e costruire senso, e una “visione” positiva dei propri desideri realizzati.
Riconoscere e valorizzare le risorse presenti per poi occuparsi delle mancanze e dei vincoli.
Cogliere le opportunità oltre che gestire le minacce e i rischi.
Essere realisticamente confidenti e speranzosi, e darsi la possibilità di tentare, investendo sull’evoluzione tanto quanto sulla difesa.
Mantenere il focus su quello che almeno in parte può essere impattato e influenzato direttamente
e, contestualmente, che si lavori per l’implementazione di processi che favoriscano tale allenamento.

Insomma, come nel caso della motivazione, ancora una volta si tratta di insegnare (o ricordare) come si pesca.