Nel successo professionale ci sono momenti nei quali siamo consapevoli di dover compiere una scelta. Di solito sono situazioni nuove, nelle quali ci sentiamo esposti, all’avanguardia di noi stessi.
Non necessariamente portiamo a casa un successo, ma spesso proviamo soddisfazione perché sentiamo di aver comunque colto una sfida, battuto percorsi che prima di allora ci sembravano inaccessibili.
Altre volte, invece, restiamo sul sentiero già tracciato e conosciuto. Lo percorriamo con più o meno energia, ma ne apprezziamo la confortevolezza, traendone un certo tipo di rassicurazione.
Spesso, però, se tendiamo a definire il primo caso come una scelta, sottolineandone l’aspetto di discontinuità, il secondo ci sembra piuttosto una conseguenza di decisioni passate, o di abitudini, o ancora di azioni necessarie in un dato contesto culturale, organizzativo, valoriale.
Ogni nostro comportamento può essere visto in termini di scelta
Ogni azione, attesa, parola, silenzio… sono frutto di una scelta. Credo sia utile pensarla in questi termini, anche se a volte forse scomodo, poiché ci restituisce protagonismo in ciascun nostro passo. Ogni volta che rileggiamo il nostro comportamento dicendo “non potevo fare diversamente” limitiamo la nostra responsabilità e il nostro potere.
L’opposto dell’ownership (protagonismo) è il sentirsi prigionieri di una situazione, di non avere alternative o di sentire che le decisioni importanti le prendono gli altri. L’approccio del self-empowerment tende ad ipotizzare che tali situazioni siano molte meno di quanto non crediamo. Piuttosto sarà utile ragionare sul “costo” di ciascuna alternativa, al fine di poter prendere una decisione più consapevole e libera, agendo quindi il proprio protagonismo.
Scegliere o non scegliere, fare i conti con le conseguenze
Vorrei fare alcuni esempi. Quando due genitori si separano sentono molta responsabilità personale e pressione sociale per gestire al meglio la separazione. Chi li guarda pensa: loro hanno scelto, ma sono i figli che pagano. Allo stesso tempo, genitori che decidono per un’alimentazione vegetariana o vegana sentono lo stesso sguardo: voi decidete, i figli rischiano di andarci di mezzo. E due genitori omosessuali che vogliono adottare uno o più figli sentono la stessa critica. Oppure due genitori che tolgono i figli da scuola per fare educazione parentale. Sto facendo gli esempi più eclatanti. Ma ogni scelta divergente accentua la prospettiva di chi dice: “Che diritto hanno costoro di scegliere per i loro figli?”.
D’altro canto, però, raramente sento lo stesso sguardo in altre situazioni. Ecco alcuni esempi di frasi che non sento: “Quei genitori sono scontenti e tristi sul lavoro ma non hanno il coraggio di cambiare: loro scelgono di stare lì, ma che esempio stanno dando ai loro figli? Sono i figli che pagano il prezzo di questa mancanza di coraggio”; oppure: “Hanno la TV in cucina e la accendono a cena: sono i figli che pagano”; o ancora: “Quei genitori non fanno sport da anni, leggono poco, non suonano più, e non viaggiano: sono i figli che pagano”; o ancora: “Non si amano più, eppure non fanno nulla per cambiare la situazione: sono i figli che pagano”; oppure “Hanno paura di tutto, non si lanciano mai, mettono bambagia ovunque: sono i figli però che pagano”.
Nella scelta governiamo il nostro destino
Chi studia il regret, ha verificato che il livello di rimpianto che una persona percepisce aumenta quando la persona sente di aver agito attivamente. Ovvero siamo meno dispiaciuti se perdiamo dei soldi che avevamo investito un anno fa e lasciato lì, piuttosto che se perdiamo la stessa somma investendola un anno fa e poi spostando l’investimento a metà anno. Percepiamo le nostre azioni come costose e privilegiamo la continuità, che richiede meno energia.
In azienda incontriamo la stessa dinamica: persone che scelgono in modo più sereno ed esplicito, ed altre che pur scegliendo si descrivono come prigioniere di un sistema. Assumere su di sé le proprie responsabilità, invece, significa cercare anche le chiavi per cambiare quello che non funziona o che vorremmo diverso. Smettere di lamentarsi ed iniziare ad agire.
Non voglio dire che non esistano situazioni in cui possiamo subire situazioni di vario genere. Quello che voglio evidenziare è che pensare al nostro destino nelle mani di altri ci pone inevitabilmente in una situazione di stallo. Pensandoci invece e comunque protagonisti di una dinamica, regaliamo a noi stessi la possibilità di cambiare il corso delle cose, riprendendo le redini della nostra vita.
Un breve esercizio
Prova questo semplice esercizio: scrivi su di un foglio un episodio nel quale ti sei sentito vittima, nel quale non potevi fare diversamente (o così pensavi). Prova ora a cercare un comportamento alternativo, anche molto lontano dal tuo. Aiutati pensando ad una persona molto diversa da te: come avrebbe gestito quella cosa? Poi cerca un’altra alternativa, allo stesso modo, e poi una quarta… e continua ad aggiungerne. Ora torna al principio e prova a riguardare l’accaduto osservando quante altre possibilità ci sarebbero state.
Se è vero che non si può non comunicare, come diceva lo psicologo Paul Watzlawick, è allo stesso tempo vero che non si può non scegliere: rendiamo allora ogni nostra scelta il più possibile libera, creativa, consapevole ed ecologica, qualunque essa sia.
Questo articolo ha il grandissimo merito, secondo il mio punto di vista, di demolire efficacemente un pregiudizio e uno dei più gettonati sistemi di “evasione” dalla responsabilità personale, ovvero il nascondersi dietro alle sante “ragioni di forza maggiore”.
Non che queste ultime non esistano, naturalmente, ma la scelta di adattarvisi o meno rimane sempre e comunque in capo a chi se le ritrova tra le opzioni da valutare. E non è la natura della scelta a dare conto del valore della persona, non sempre perlomeno, ma lo è la capacità di riconoscere che, comunque sia, si è operata una scelta e che dunque si accettano anche tutte le conseguenze che ne deriveranno, convenienti o meno che si riveleranno.
Riguardo, in particolare, alle scelte che si operano e che coinvolgono i figli vorrei riportare una mia personale esperienza.
Quando mia figlia giunse all’età scolare optai per la sua esclusione dall’ora di religione dato che, non avendola fatta battezzare e scegliendo di non accostarla ad alcuna influenza religiosa, una diversa decisione sarebbe stata alquanto irrazionale e tartufesca.
Ebbene, la gran parte dei mie colleghi, sto parlando di alcune decine di persone, conclusero – alcuni con aperta riprovazione e talora con disprezzo – che avevo “scelto anche per mia figlia”. Inutile fu replicare che anche una scelta contraria avrebbe avuto lo stesso identico effetto e che comunque il decidere per i propri figli è, per l’appunto, un dovere specifico del genitore e che l’importante è, semmai, assumersi la responsabilità di quello che si è fatto, senza adagiarsi comodamente in consuetudini che ti sollevino dalla responsabilità morale, ma ovviamente tutti rimasero della loro opinione.
Non importa. Io e mia moglie operammo una scelta coerente e a ragion veduta, i cui effetti tra l’altro, a distanza di un paio di decenni, si sono rivelati positivi.
Le scelte si fanno, sempre e tuo malgrado. Meglio esserne consapevoli e assumere nelle proprie mani la direzione del proprio cammino, anche quando si cede alla “forza maggiore”.
“E non è la natura della scelta a dare conto del valore della persona, non sempre perlomeno, ma lo è la capacità di riconoscere che, comunque sia, si è operata una scelta e che dunque si accettano anche tutte le conseguenze che ne deriveranno, convenienti o meno che si riveleranno.” Grazie Roberto di questo tuo commento. La questione ovviamente è complessa e può anche essere spinosa, se estremizziamo i concetti, ma questa tua sintesi è chiara e per me preziosa. Massimo Bruscaglioni, uno dei miei maestri, a suo tempo la definì “Micro-cultura trasversale personal professionale empowerment oriented socializzabile (MCTPPEOS)”. Definizione un po’ complicata, ma il cuore del concetto è che prima ancora che i contenuti (le idee, i valori, le priorità personali) conta il modo nel quale sappiamo (o impariamo, o insegniamo) trattare i contenuti stessi.
Indubbiamente nella vita (professionale e non) vi sono eventi che non scegli. Essi semplicemente “capitano” ed apparentemente non puoi fare altro che “subirli”. Possono essere belli o brutti ma in ogni caso essi conducono a nuove circostanze di vita: una nuova condizione lavorativa, una nuova condizione fisica, un nuovo stato di vita. È lì che si ha la possibilità di esercitare la propria libertà e decidere, scegliere come vivere. Scegliere di non scegliere è una possibilità magari utile ad attendere che la nebbia iniziale sia diradata, ma alla fine qualunque sia il “fatto” o l’evento che ci abbia interessato penso sia meglio mettersi in azione e vivere il nuovo tempo come “kairos” ovvero opportunità donata e utile a scoprire nuove cose e nuovi aspetti di sé e della propria vita. In una sola parola: a crescere.
Grazie Umberto. So che spesso non è facile fare quello che descrivi, che la vita e l’azienda vanno in direzioni a volte difficili da comprendere ed accettare. Ma le tue parole e il tuo atteggiamento sono quelli di chi, comunque vada, sta scrivendo una pagina importante. In bocca al lupo, hai tutto il mio “tifo”!