Per parlare di feedback di sviluppo è necessario riuscire a pensare al feedback non come strumento di rottura, ma come occasione trasformativa per generare necessari e nuovi assetti organizzativi.

Il feedback di sviluppo, ovvero l’anima gemella è qualcuno che ti pungola

locandina del film Genio Ribelle

Genio ribelle, locandina.

Una delle più belle definizioni di amore l’ho trovata nel film Will Hunting – Genio ribelle: l’anima gemella è qualcuno che ti pungola. Non qualcuno che ti ascolta, accudisce, comprende. Certo, anche quello. Ma soprattutto qualcuno che ti stimola, ti provoca ad esserci e proseguire nel tuo cammino.
Pungolare, allora, non è solo l’atto fastidioso di un disturbatore, ma anche il gesto d’amore di chi ti guarda e pensa “puoi essere più di così”.

Nell’approccio del self-empowerment la comunicazione incisiva e la provocazione sono gli elementi chiave del feedback di sviluppo e abilitatori di salto di qualità.
La comunicazione incisiva consente di rompere il circolo vizioso della conferma (restare sul noto, ripetere cose già dette o pensate, ripercorrere gli stessi dialoghi) per entrare nel terreno più accidentato ma anche più stimolante e meraviglioso del non-noto.

Ricordo ancora, anni fa, mi trovavo in aula e una collega mi chiese se avessi dato un feedback ad un partecipante. “Certo”, risposi. Non era vero, avevo paura di darlo quel feedback. Ma ciò che accadde dopo fu la cosa per me più sbalorditiva, ma anche la più semplice: la mia collega andò dal partecipante a chiedere se gli avessi dato quel feedback e, in sostanza, mi sbugiardò. Questo è uno degli eventi avvenuti sul lavoro che più mi ha segnato, e questa collega è una persona alla quale sono grato e riconoscente.

Il coraggio dell’interesse

Da quel giorno ho imparato alcune cose:

  • chi ti dice solo “bravo” e non si prende la briga di dirti altro, in realtà ti sta trattando con superficialità e disinteresse
  • ricevere un feedback scomodo, anche imbarazzante, è sempre difficile. L’alternativa per certi versi è “farla franca”, per altri è sprofondare di un altro centimetro nelle nostre piccole/grandi sabbie mobili
  • ci si può allenare a ricevere feedback, a ringraziare anche quando dentro si è acceso un vulcano. Perché uno sguardo aperto consente di comprendere e fare passi avanti, di non perdere le occasioni di messa in discussione.

In azienda non è semplice, spesso le persone hanno paura di scontentare, offendere o entrare in conflitto se dicono alcune cose. Ma, parafrasando una citazione ormai nota, provate ad immaginare il dialogo interno di un capo:

  • Cosa succede se gli do questo feedback e lui si offende e se ne va?
  • Ok. Ma cosa succede se non glielo do, e lui resta.

Tutti desideriamo essere “visti”, e questo comporta che gli altri vedano anche quello che, a volte, vorremmo nascondere. La vera differenza è cosa sappiamo fare di queste informazioni? Come, sul posto di lavoro, possiamo essere generativi anche di fronte all’inadeguatezza o al fallimento nostro o altrui.

C’è vita dopo il feedback… 

Vi presento un caso secondo me emblematico. Si tratta della storia di un’azienda che, facendo uso della tecnologia ai limiti dell’invasione di privacy, è riuscita ad avere informazioni sul comportamento scorretto di un proprio dipendente. Su questa base ha chiuso il rapporto di lavoro. L’articolo si interroga sull’opportunità e sulla legalità di tali modalità d’investigazione, ma leggendolo la mia attenzione è andata altrove. Ovvero al fatto che l’azienda e la funzione HR hanno perso una buona occasione per interpretare in chiave manageriale il proprio ruolo. Si sono arroccati su una posizione e l’hanno portata fino in fondo, in modo forse pragmatico, ma poco generoso ed ispirato.

A volte, infatti, quando si restituisce un feedback è difficile “circostanziare” o rendere oggettivamente i comportamenti disfunzionali che si vogliono sottolineare. Spesso chi lo riceve cerca di spiegare, argomentare, anche nascondere determinate realtà. Così si lascia alla buona volontà, alla sensibilità personale, alla voglia o meno di mettersi in discussione di fronte ad un riscontro che si riceve da un’altra persona.

In questo caso, invece, il fatto che il lavoratore sia stato “incastrato” non rappresenta a mio avviso la conclusione della vicenda, ma piuttosto un’opportunità preziosa per sedersi ad un tavolo e magari proporre un rilancio. Proprio il fatto di avere prove “schiaccianti”, infatti, non rappresenta necessariamente la fine del rapporto di lavoro. L’HR avrebbe potuto parlare con la persona e costruire con lei un patto nuovo, che tenesse presenti gli errori fatti dal lavoratore. Aprendo nuovi canali di ascolto e costruendo un’alleanza più solida e consistente, avrebbe potuto dire: “Sappiamo che è successa questa cosa, ma abbiamo investito su di te e vogliamo continuare a farlo. Cosa ne pensi? Come possiamo ripartire da qui in avanti?”

L’HR, a mio avviso, si è perso quindi anche la possibilità di accompagnare la direzione aziendale in questo percorso: giocando un ruolo a maggiore valore aggiunto, negoziando con la direzione (che è necessariamente più focalizzata su aspetti di business e produzione) e aiutando i propri datori di lavoro ad assumere una posizione diversa, più possibilista e lungimirante.

Queste riflessioni sorgono da un evento del quale non conosco i dettagli, ma nascono anche dall’esperienza fatta in coaching, assessment, consulenze alla direzione HR, affiancamenti sul campo a manager. Non è sempre semplice utilizzare il feedback per rilanciare un rapporto incrinato, per ripartire dopo un fallimento o un “tradimento” professionale. Spesso si preferisce chiudere una porta. Questo, che può apparire un comportamento “forte”, cela a mio avviso invece una debolezza di fondo, sulla quale sarebbe opportuno riflettere e lavorare.